giovedì 17 ottobre 2013

Di Orfani e di rivoluzioni.

Ovvero, un commento al 1° numero della serie a fumetti ORFANI (ultima nata in casa Bonelli).

Comincio, innanzi tutto, a complimentarmi con chi ha portato avanti per più di un anno la campagna pubblicitaria della serie, perché, dopo diversi anni e diversi "numeri 1" che hanno avuto modo di passare tra le mie mani, ho di nuovo sentito il bisogno di "isolarmi da tutto" per poter leggere l'albo in questione senza pause di sorta, e con i sensi concentrati a raccogliere tutto quello che potevo percepire. Nel mio percorso personale di lettore e appassionato di fumetti, solo altre due volte mi era capitato: la prima è stata nel 1991, in corrispondenza dell'uscita del n° 1 di Nathan Never (a mia opinione il miglior fumetto di ogni tempo) e nel 1997, quando uscì il n° 1 di Magico Vento (fumetto che rientra comunque nella mia personale top 5 fumettistica). Unica osservazione che mi sento di fare è che, a mio parere, spiegare prima dell'uscita del primo numero in modo così preciso come funzionava il discorso dei due piani temporali, ha attutito di molto il potenziale dell'effetto sorpresa che si sarebbe potuto scatenare al momento dello stacco tra la prima e la seconda parte dell'albo.

Parlando poi dell'albo in sé, l'inizio della storia mi è piaciuto molto, sotto diversi aspetti:
l'accoppiata disegni-colore rende il senso del dramma e della tragedia in maniera molto vivida; il racconto scritto, sia nei dialoghi che nelle didascalie, pur essendo molto asciutto e sintetico, riesce bene a dipingere la personalità dei singoli personaggi e trovo anche bello il fatto che le didascalie non siano sempre associate ad un personaggio preciso, come se fossero una sorte di voce fuori campo, che raccoglie il pensiero comune dei bambini sopravvissuti; lo stacco tra la prima e la seconda parte è semplicemente stupendo, anche se il fatto di sapere già da prima che ci sarebbe stato, ha diluito e attutito quel senso di meraviglia, che a me fa alzare sempre i voti finali.

Un'altra cosa che ho trovato notevole, è stata il modo di raccontare questo inizio di storia, tanto bonelliano nella gabbia che contiene le vignette, quanto assolutamente non bonelliano nell'impostazione del racconto. Ho proprio percepito, infatti, la volontà di lasciar parlare più le immagini e i colori che non i dialoghi o le didascalie, e poi il ritmo del racconto, specialmente nella dimensione del presente è veramente senza respiro (come di fatto è una vera battaglia). 

Inoltre, anche se in questo inizio sembra assolutamente chiara la divisione tra buoni e cattivi, comunque non trovo che sia un qualcosa che fa perdere di fascino alla storia, anche perché c'è anche una sensazione che le cose possano non essere così come sembrano.

In conclusione, l'albo introduttivo mi è piaciuto molto, trovo che il colore, così come è stato usato, sia veramente un valore aggiunto; i disegni sono spettacolari, l'inizio storia è intrigante e il modo di raccontarla è molto diverso dal modo in cui la Sergio Bonelli Editore ci ha abituato nel corso dei decenni. 

P.S. Messaggio personale per Roberto Recchioni e per Emiliano Mammuccari: ho letto l'intervista che avete rilasciato al sito di Comicus, in cui suggerivate una colonna sonora per leggere l'albo. Beh, io avevo nello stereo CONCERTO MAXIMO dei Pendragon, e vi assicuro che, leggere le sequenze della battaglia sul mondo alieno sulle note di MASTER OF ILLUSION è stato qualcosa di meraviglioso ;)

sabato 6 luglio 2013

Una Società Drogastica

Ovvero come ti lego il caso Schwazer, la sindrome premestruale e un ricordo dei miei 17 anni.

È il 6 agosto 2012, siamo nel pieno dello svolgimento delle Olimpiadi di Londra quando arriva la notizia che Alex Schwazer (atleta italiano vincitore della medaglia d’oro della marcia alle olimpiadi di Pechino) è stato trovato positivo ai controlli anti-doping. Da quel momento si scatena un fiume di notizie e di commenti sullo sport che deve essere “pulito”, sull’ “orrore del doping”, sullo “scandalo sportivo” di un atleta che si è “macchiato” di questa “colpa”. Negli stessi giorni, nel vagare per vari blog che seguo in rete, vado a leggere un post nel blog “A Casa di Simo” e, nei link consigliati in fondo a quel post, uno in particolare che dice di voler “spiegare agli uomini la sindrome premestruale”, intitolato "Lettera aperta all'uomo medio". Mentre lo leggo, e ancora riecheggiano in me le notizie e i commenti letti su Schwazer, i toni e i contenuti sia di quel post che di quelle notizie si associano in una maniera incredibile ed ecco che, nel commentare queste cose, mi viene fuori una frase che arriva dalla mia adolescenza: “Siamo proprio una società drogastica”.

Siamo nel 1991, un pomeriggio in cui, nella scuola superiore in cui andavo all’epoca, si stava tenendo una conferenza sul problema della diffusione della droga e delle tossicodipendenze tra i giovani e, nell’introdurre il discorso, il relatore usò un punto di vista che ancora oggi è scolpito a fuoco nella mia memoria: “Potrei farvi il discorso, sul fatto che il drogarsi è sbagliato, sul non cedere alla tentazione, o sulla debolezza di chi cede alle lusinghe della droga, ma il vero problema della diffusione delle droghe e delle tossicodipendenze è che tutti noi viviamo in una società drogastica”. Alla reazione stupita da parte della platea, professori compresi, il relatore cominciò a sviluppare il discorso puntando sul fatto che la società per prima si stava muovendo su una strada che favoriva e incentivava l’uso di droghe, perché seguiva il concetto per cui ogni individuo dovesse sempre e comunque “essere efficiente”, “essere produttivo”, “essere attivo”, “essere in forma”, “essere giovane” con una pericolosa similitudine tra i verbi “essere” e “sembrare”. Nel portare esempi per spiegare ciò che intendeva, lui ha ripreso una serie di pubblicità che reclamizzavano i prodotti più disparati come:

“Sei stanco? Bevi l’integratore X che ti da l’energia per affrontare la giornata” (Non importa che una volta che l’integratore abbia terminato il suo effetto, tu sarai ancora più stanco di prima, perché così hai consumato tue ulteriori riserve di energia, quando ti sarebbe un buon sonno per rimetterti in sesto e per essere lucido senza bisogno di ricorrere a sostanze estranee).

“Hai la febbre e non vuoi rinunciare ai tuoi impegni della settimana? Prendi la pastiglia Y che fa svanire i sintomi e puoi essere di nuovo scattante” (Non importa che il tuo corpo sia ancora ammalato e quindi, finito l’effetto della pastiglia tu stia peggio di prima, quando ti sarebbe bastato curarti e guarire per poi poter riprendere la tua vita normalmente).

“Hai fatto tardi alla sera e adesso hai le occhiaie? Usa la crema Z, e il tuo viso sarà di nuovo fresco e riposato” (Così potrai crollare addormentato durante la riunione di lavoro senza però far vedere che avevi le occhiaie).

“La notte hai problemi a prender sonno? Prendi la pastiglia H, per dormire bene” (Non importa che, magari, se non prendevi integratori e pastiglie varie per star sveglio, poi non avevi problemi per addormentarti, perché eri già stravolto di tuo).

“Le rughe e i segni del tempo attaccano il tuo viso? Usa il prodotto XY, o fatti un bell’intervento di chirurgia plastica, così sarai per sempre giovane”. (Non importa che, dai vent’anni in avanti, nel tuo corpo nascano sempre meno cellule in un giorno di quante non ne muoiano e quindi continui ad invecchiare nonostante tutti i tentativi di non farlo vedere agli altri).

“Devi affrontare un esame all’università e il tempo per prepararti non ti basta? Prendi il preparato K che ti consentirà di concentrarti più a lungo”. (E se ti limitassi a dare l’esame dell’università alla sessione successiva invece di sottoporre fisico e mente a livelli di stress superiori al comune?).
E così via elencando.

Il relatore poneva proprio l’accento su come in queste pubblicità stati naturali di un organismo sano, come la stanchezza e l’invecchiamento, fossero indicati come “problemi da combattere e da risolvere”, e per quanto riguarda lo stato di malattia, l’accento era posto non sulla guarigione dalla malattia, ma sulla soppressione dei sintomi. Infine, come ciliegina sulla torta, ecco che le “soluzioni ai problemi” altro non erano che o prodotti farmaceutici che alteravano la percezione che noi avevamo del nostro organismo (non facendoci provare le sensazioni di stanchezza, ansia, fame o qualsiasi altra cosa) o prodotti cosmetici che cercavano di nascondere ai nostri occhi, prima ancora che a quelli degli altri, i segni che il tempo lasciava sul nostro corpo. In buona sostanza in questi messaggi si sosteneva che l’insoddisfazione verso la tua vita e verso il tuo corpo poteva essere risolta dalle sostanze chimico-farmaceutiche che ti stavano proponendo (quanto è simile questo ragionamento a quello di cerca rifugio nelle droghe per sfuggire alla realtà?).

Ma quello che ha creato l’associazione di idee tra le tre situazioni, è stata la sensazione che avessero una base comune: l’impostazione data a livello sociale che tutti debbano sempre e comunque andare oltre i propri limiti, a qualunque costo e in qualunque modo. Perché l’importante è vincere, e non dare il meglio di sé; perché l’importante è curarsi della propria immagine e dell’opinione che gli altri possono averne, piuttosto che della propria persona e del proprio equilibrio; perché l’importante è sempre crearsi nuove aspettative (senza tener conto dei propri limiti), piuttosto che godere dei risultati raggiunti e vedere su come e se si può migliorare.

Entrando nel dettaglio per quanto riguarda Schwazer, vorrei far notare alcune cose:
1)     Ha partecipato a gare di Marcia da 20 e da 50 km tra il 2005 e il 2011
2)     Ha vinto una medaglia d’oro alle olimpiadi di pechino nel 2008
3)     Ha vinto una medaglia d’argento in coppa del mondo, migliorando il tempo delle olimpiadi
4)     Ha vinto una medaglia d’argento ai campionati europei
5)     Ha vinto due medaglie di bronzo ai campionati mondiali.
Nonostante questo palmares, nei mesi precedenti alle olimpiadi di Londra, ecco spuntare il concetto che, se Schwazer non avesse portato almeno un medaglia (con predilezione per l’oro, ovviamente) si sarebbe parlato di “fallimento” dell’atleta, che era visto come una medaglia sicura per l’Italia ai giochi olimpici e alcuni paventavano già che quella sarebbe stata la gara per capire se lui come atleta potesse dare ancora qualcosa, oppure se fosse già nella fase discendente della carriera. Da una parte, quindi, si creano pressioni enormi e dall’altra, se la persona cede, ecco che la butta letteralmente a mare senza alcuna pietà o riconoscimento di ciò che comunque ha fatto fin lì che, comunque, è stato qualcosa che pochissime persone al mondo sono state in grado di fare.

Per quanto riguarda la sindrome premestruale, invece, mentre leggevo il post “Lettera all’uomo medio” sul blog “A Casa di Simo”, percepivo sia l’ironia di cui era intessuto, sia l’aggressività che questo descriveva ma, se capivo e condividevo la rabbia per il dolore fisico e gli umori cangianti dovuti alla tempesta ormonale, per tutte le altre situazioni descritte il commento che mi usciva spontaneo era: “Ma perché tutta questa rabbia?”  

Sembra che vi vediate sempre più brutte di quello che siete e vi sentiate quasi obbligate a ricorrere al trucco per nascondere quelli che considerate difetti e che, quindi, non bisogna assolutamente mostrare; sembra che il farvi notare un cambiamento del vostro aspetto fisico equivalga a dirvi che siete dei cadaveri putrefatti, buone solo più per essere gettate nella fossa comune da gente che indossa la maschera antigas per reggere alla repulsione che voi provocate; sembra che il fatto di superare quella misura sacra nota ai più come “pesoformaottimale” di una quantità con ordine di grandezza superiore all’ettogrammo sia una colpa passibile di pena di morte da eseguirsi tramite crocefissione e squartamento in stile sacrificio religioso dei tempi antichi.

Date veramente l’impressione di vivere il rapporto col vostro corpo quasi come una tragedia greca in cui voi siete le eroine destinate ad essere sconfitte da quel nemico gretto e meschino che è il tempo. Ma rispondere a tutti quei messaggi e a quegli stimoli, più o meno espliciti, che ci dicono che bisogna essere sempre “belliattivigiovaniefficientiinformasmagliantesensualmenteesessualmenteesplosiviinognimomentodellagiornataefinoalnostroultimogiornodivita” con un bellissimo ECCHISSSSENEFREGA in formato intergalattico, no? Imparare a condividere col sorriso sulle labbra anche i difetti e le debolezze pare una bestemmia? Sapersi guardare in faccia, quando si sente il desiderio dell’altra persona, e dirsi “anch’io ho voglia di te, ma non ce la faccio”… e poi riderci assieme è così riprovevole? Usare il trucco per giocare e travestirsi, o per esaltare una qualità, piuttosto che per coprire un difetto, no?

Il fatto è che fino a vent’anni il corpo cresce e si sviluppa, dopo invecchia. Fintanto che te ne accorgi, vuol dire che sei viva; quando non te ne accorgi più, vuol dire che sei morta (e il processo di invecchiamento, allora, si chiama decomposizione).

Non siamo sempre in forma? Non siamo sempre scattanti? Non siamo sempre con un fisico scultoreo? Non siamo sempre giovani? E dov’è il problema? È la nostra natura! Nasciamo, cresciamo, invecchiamo e moriamo. Per cui vi chiedo: cosa trovate che sia meglio? vivere felicemente i giorni della propria vita, godendo di quanto di bello ci donano, oppure vivere come se fossimo sempre in guerra per aggrapparci disperatamente a quello che crediamo che il tempo ci voglia togliere?

Di uomini, di androidi e di pecore....

A volta capita di imbattersi in idee che sembrano vivere di luce propria. Idee che, pur passando nelle mani di più artisti in diverse arti non perdono mai nemmeno un'oncia della loro potenza e della loro bellezza iniziale.

Una di queste idee, in particolare, ha attraversato la mia strada rivestendosi di ben tre arti diverse:

La prima volta è stato in forma di film, che è fin da subito diventato il mio preferito in assoluto (e ancora lo rimane a distanza di più di vent'anni).
La seconda volta è stato in forma di libro. Sapevo che Blade Runner era stato tratto da questo libro di Philip K. Dick e, trovandolo in un'edicola della stazione di Torino, poco prima di partire per un viaggio in treno che mi avrebbe portato fino in Calabria, l'ho comprato e, nelle quasi 17 ore che è durato quel viaggio, l'ho letto tutto in un colpo solo. Ancora oggi fa parte dei miei libri preferiti e, come ciliegina sulla torta, il tipo di ambientazione e di futuro immaginati sia nel libro che nel film sono stati di ispirazione ad Antonio Serra, Michele Medda e Bepi Vigna per creare il mondo di Nathan Never (per me il miglior fumetto di sempre)




La terza volta in forma di fumetto, in particolare tramite il mezzo del romanzo grafico (o graphic novel che dir si voglia)


dove il disegnatore Tony Parker ha dato vita alla sua visione del libro tramite le immagini e dove il testo di Dick è stato preso integralmente e scomposto in didascalie e dialoghi per adattarsi alla forma del racconto a fumetti.

E in tutte queste tre arti la visione del mondo di Philip K. Dick mi ha sempre colpito in maniera molto profonda, sia nelle emozioni che mi ha scatenato, sia nelle riflessioni che mi ha ispirato. Una visione, ma di fatto due storie, perché libro e fumetto raccontano la stessa storia, mentre il film racconta una storia rielaborata, in cui molti elementi sono diversi, ma dove comunque l'atmosfera e il mondo futuro immaginato da Dick rimangono perfettamente integri.

Tutte e due le storie narrate, infatti, hanno come perno principale la relazione e la commistione tra naturale e artificiale che, in quel futuro che qui ci viene raccontato, sono talmente simili da essere quasi del tutto indistinguibili, ma nel caso del libro e del fumetto l'altro cardine è il discorso sul controllo e sull'omologazione, mentre nel film il secondo punto cruciale è il rapporto con chi è diverso.

Nel film gli androidi si recano sulla terra per cercare risposte sulla loro origine e sul loro futuro, e il film da molto spazio sia a questa ricerca, che allo scontro tra Deckard e ciascuno di loro, scontro che termina con il famoso monologo "Io ne ho... viste cose, che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione! E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei... momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo... di morire" (monologo che nel libro non esiste e che è stato improvvisato sul set da Rutger Hauer), in cui l'androide viene fatto vedere semplicemente come un'altra forma di vita che ha agito per cercare di sconfiggere la morte, ma che alla fine ha dovuto accettarla.

Nel libro e nel fumetto, invece, la caccia che Deckard fa del gruppo di androidi è solo un tassello di quello che è un vero scontro (anche se non sempre armato) di civiltà differenti, con quella androide che cerca di conquistarsi un proprio spazio dove potersi difendere dalla violenza degli umani, e con gli umani che cercano di uccidere (o, per usare il termine Dickiano, "ritirare") tutti gli androidi per sconfiggere il timore che hanno di essere sopraffatti da quelle creature artificiali. L'ambiente che viene descritto è quello di un pianeta terra con l'aria intrisa di polvere radioattiva da cui gli umani scappano emigrando nelle colonne marziane. Le città sono semi-deserte, molte specie di animali sono di fatto estinte e la maggioranza degli umani, seguace della religione del mercerianesimo, compra e accudisce animali artificiali, per coltivare la capacità di empatia (che viene definita come l'unica caratteristica che separi l'umano dall'androide).

Alcune situazioni descritte nel libro, nel fumetto e non nel film che mi hanno colpito molto sono state: in primo luogo il fatto che gli umani usassero una sorta di apparecchio che poteva infondere ogni tipo di emozione e che programmassero quali emozioni sentire all'interno della giornata; poi ciò che si intendeva con la parola "speciale", ovvero un essere umano a cui la polvere radioattiva avesse causato modifiche nel codice genetico e a cui, quindi, veniva negata l'opportunità di emigrare nelle colonie marziane perché, in quei luoghi, la società umana voleva solo persone "normali"; infine il fatto che il possesso di animali veri fosse ritenuto un vero e proprio status symbol, che gli umani che possedevano sono animali artificiali cercavano di fare di tutto per nasconderlo perché se no "chissà cosa potrebbero pensare i nostri vicini" e che esisteva un catalogo in cui si dava un prezzo specifico ad ogni specie e razza di animali e su quel prezzo stabilivi, di fatto, la classe sociale a cui apparteneva chi possedeva quell'animale.

Questa storia mi ha dato veramente tanto, sia a livello di emozioni sia di domande, dicevo prima. Domande come:

"Quante volte agiamo solo per soddisfare le aspettative di altri su di noi?"
"Quante volte neghiamo la nostra individualità, solo perché abbiamo paura di non essere accettati dal contesto sociale?"
"Quante volte mentiamo a noi stessi e agli altri, solo per paura dei giudizi che gli altri possono dare?"
"Quanto ci vorrà perché noi si possa imparare a guardare chi è diverso da noi, non come una minaccia, ma come qualcuno attraverso cui si ha una possibilità di crescere assieme?"

Ogni giorno osservo la realtà che mi circonda e, sempre più spesso, mi viene da chiedermi quanto lontano avesse visto Philip K. Dick, ormai quarantacinque anni fa.

mercoledì 29 maggio 2013

La variabile (in)dipendente

Come promesso, visto che qualche tempo fa avevo anticipato la seconda parte di questo discorso, ecco che ora vado a pubblicarne la prima che racconta, soprattutto, la storia di una piccola consapevolezza e dell'inizio di una grande rivoluzione personale.

Siamo verso la fine del 2002 e io mi trovo seduto di fronte al mio datore di lavoro dell'epoca nel suo ufficio per fare il punto della situazione.

Durante questo incontro, parliamo di molti argomenti, sia professionali che personali e, a un certo punto, se ne esce con questo discorso:

"Un uomo ha bisogno di tre appoggi per dare un equilibrio alla sua vita: il primo appoggio è la famiglia (sia quella di origine, sia quella che viene poi composta quando ci si stacca dai genitori); il secondo appoggio è il lavoro (l'indipendenza economica e la realizzazione di sé stessi); il terzo appoggio è quello della socialità, delle amicizie. Se uno di questi appoggi viene a mancare, ecco che l'equilibrio manca e una persona può entrare in crisi"

Al che risposi

"Visto che, per quanto riguarda la famiglia, da una parte sono in un momento di forti contrasti con i miei e dall'altra mi sono preso dalla donna di cui mi sono innamorato l'ennesima risposta del tipo tu per me sei un amico; visto che, per quanto riguarda il lavoro, purtroppo al momento non mi consente più di avere un guadagno tale da darmi la possibilità di vivere indipendentemente e visto che i contatti con i miei amici si sono diradati molto in questi mesi... allora non devo stupirmi se sono in crisi!"

Il colloquio è poi proseguito e, in quel frangente, ci si accordò per un'altra serie di piccoli lavori che avrei fatto nei mesi successivi.

Da quando esco da quell'ufficio, però, continuo a pensare al discorso sui punti d'appoggio e ho la sensazione che ci sia qualcosa che non mi torna, come una nota stonata che abbruttisce di colpo una melodia che ti stava incantando, ma non riesco a capire cosa sia, fino a quando, nelle mie elucubrazioni, trovo che tutti e tre gli appoggi che mi erano stati indicati avevano due caratteristiche fondamentali in comune:

Non solo nessuno degli appoggi non dipendeva completamente da quello che potevo fare io, ma era anche vero che tutti e tre questi appoggi si basavano maggiormente sui comportamenti delle persone che con me interagivano.

Per quanto riguarda l'aspetto della famiglia, ad esempio, vediamo che, se si parla di quella che tu ti crei nel corso della tua vita:
Tu puoi amare con tutto te stesso ma, nel momento in cui non c'è reciprocità la coppia o non esiste o, comunque, non può vivere né in equilibrio né felicemente; anche nel momento in cui il sentimento è reciproco, però, se le due persone non trovano un modo per comunicare o se manca la sincerità reciproca, la coppia non può far altro che o scoppiare o trascinarsi mestamente in un crogiolo di sospetti e mancanza di fiducia; infine, se ci sono sentimenti comunicazione e fiducia, ma mancano obiettivi comuni e manca una volontà comune per affrontare e risolvere le situazioni che la vita ti mette davanti, anche in questo caso o la coppia si dissolve, o si tira avanti in un ambiente dove liti e frustrazioni sono all'ordine del giorno.
Per quanto riguarda i figli, invece, li si può anche amare a livello incondizionato, si può creare con loro un rapporto stupendo, ma comunque il compito di un genitore non è solo quello di proteggere i propri figli, ma anche e soprattutto introdurli nel mondo e nella vita passo a passo, fino a quando non abbiano raggiunto la capacità e il grado di coscienza che consentono loro di affrontare la vita da soli, dopodiché bisogna sapere lasciarli liberi. Quindi anche i figli, a un certo punto, non faranno più parte della nostra quotidianità (ed è giusto che sia così) qualunque cosa noi si possa aver fatto per loro. Visto che questo discorso, però, vale ovviamente anche per noi nei confronti dei nostri genitori, ecco che pure la famiglia d'origine diventa un qualcosa che, a seconda di come si comporta ciascuno degli elementi che ne fa parte, può essere un appoggio, ma può anche diventare un peso.

Per quanto riguarda il lavoro, invece, si può notare che:
Se sei un lavoratore dipendente, tu puoi lavorare con tutto l'impegno, l'abnegazione e la disponibilità possibili, ma il tuo lavoro da solo non basta a garantirti dal fatto che l'azienda possa o chiudere, o trasferirsi o non avere più bisogno di te.
Se sei un lavoratore in proprio, comunque, anche lì puoi mettere tutte le tue energie, il tuo talento, il tuo tempo, il tuo denaro, ma nel momento in cui non hai sufficienti clienti che ti portano soldi bastanti a farti vivere, il tuo lavoro (e spesso neanche quello dei tuoi eventuali dipendenti) basta per tenere aperta la tua attività.
In ogni caso, e qualunque tipo di lavoratore tu sia, anche se riesci a lavorare e a trovare soddisfazione in maniera continua, arriva un momento in cui è proprio il tuo fisico a non riuscire più a reggere i ritmi del lavoro e, di conseguenza, arriverà sempre e comunque il momento in cui ciascuno di noi si dovrà fermare dal punto di vista lavorativo.

Per quanto riguarda l'amicizia, proprio per la sua stessa natura, è un tipo di rapporto che non si esprime né in rapporto di tipo esclusivo, né in una quotidianità condivisa e su confronti e scambi continui (come il rapporto di coppia), bensì su affinità, sul piacere di condividere del tempo libero assieme e sulla coscienza di ciascuna delle persone di poter contare sulle altre in momenti particolarmente duri. Per cui può anche capitare un momento della vita in cui, per vari motivi, si sia lontani dalle proprie amicizie.

Alla fine mi sono reso conto che, seguendo lo schema dei tre appoggi, non si faceva altro che lasciare agli altri il potere non solo di influenzare, ma anche di decidere della tua gioia e del tuo dolore ed era un qualcosa che non ero più disposto ad accettare. Il problema, a questo punto, diventava come fare a crearsi la propria gioia di vivere, indipendentemente dalle persone che mi ruotavano attorno e lì mi è venuto in aiuto un ricordo di un discorso fatto coi miei, anni prima, in una delle volte in cui si stava parlando del fatto che, ai tempi, non avessi ancora trovato una ragazza. Ovviamente uno dei consigli era "ma invita un'amica al cinema, o ad un concerto, visto che ti piace la musica, e poi cerchi di farle la corte" al che la mia risposta fu "ma io non vado mai con qualcuno a fare qualcosa, piuttosto vado a fare qualcosa con qualcuno", per dire che se io andavo a vedere un film o un concerto o qualsiasi altro evento, la mia attenzione era completamente focalizzata sull'evento in questione e non sulla persona con cui, eventualmente, vi ero andato. Lasciando stare i commenti che questa frase aveva scatenato, a questo punto avevo chiarito a me stesso cosa avrei fatto per superare il momento di crisi: sarei ripartito dalle mie passioni, ma mi ci sarei approcciato in maniera diversa e ancora più profonda. E' cominciato così un periodo in cui non mi limitavo solamente ad sentire musica e ad ascoltarne i testi, o a leggere fumetti o a giocare a freccette, come già facevo prima, ma ogni volta che mi emozionavo per una canzone ascoltata o per un fumetto letto, o avevo soddisfazione per una partita di freccette vinta o per un arbitraggio ben fatto, trattenevo quelle emozioni e quelle soddisfazioni e lasciavo che fossero loro a riempire le mie giornate. Inoltre, per quanto riguarda la musica, leggevo, mi documentavo, e poi avevo ripreso il gusto di diffondere la musica che ascoltavo tramite delle compilation di pezzi.

Nell'anno successivo, quando mi capitava o di uscire in gruppo, o di trovare gruppi di persone più o meno conosciute quando uscivo per conto mio, o quando ci si incontrava in luoghi a tema (tipo una gara di freccette, un concerto, un negozio di dischi) per la prima volta ho fatto caso ad un certo tipo di situazioni che capitava abbastanza spesso: due persone parlano tra di loro (una delle due è una delle mie amicizie, l'altra è o una conoscenza comune, o una sua amicizia) e a un certo punto il mio amico, indicandomi, dice una frase dal significato "se vuoi parlare di questo argomento, vai da lui che ne sa". In quel periodo ritenevo che fosse esagerato farmi apparire come "l'esperto del settore", ma rivedendo quelle scene oggi, nella mia memoria, non posso fare a meno di pensare che sia stato proprio il mio modo di appassionarmi ad un determinato argomento, e al mio modo di approfondirlo e di parlarne che abbiano fatto sì che altri mi dessero questa sorta di patente.

Da allora sono ormai passati dieci anni, io nel frattempo ho avuto modo di avere le mie prime storie sentimentali, di trovare un lavoro fisso, di andare a vivere per conto mio e di sposarmi, ma in tutto questo tempo mi sono accorto che ripartendo dalle mie passioni, coltivandole, approfondendole e ampliandole nel corso degli anni, ho creato un vero e proprio piccolo mondo personale, indipendente dalle persone che mi stanno accanto, e che quotidianamente mi regala quelle gioie e quelle soddisfazioni che mi rendono fiero e felice della vita che conduco. Soddisfazioni che poi condivido anche con chi mi sta vicino. Una delle frasi che io e mia moglie ci diciamo spesso, che a mio parere fotografa questa situazione a meraviglia è: "Io non ho bisogno di te per stare bene, perché da solo (o da sola se a dirlo è lei) io sto benissimo. Il fatto è che con te sto meglio". Perché siamo due persone, due identità, due mondi distinti che condividono un pezzo di vita e un pezzo di strada, donandosi reciprocamente quella gioia di vivere che ognuno costruisce prima da sé.

P.S. Ultimamente, poi, durante un colloquio avuto con una psicologa in cui avevo parlato di un po' di cose che ci erano capitate, alla fine la psicologa mi ha chiesto "ma lei, Adriano, come vive tutto questo?" e io le ho risposto: "Io lo vivo comunque bene, perché io ho un mio mondo in cui, quando voglio, entro, mi rifugio, mi scarico dalle tensioni e mi rigenero." e il suo commento è stato: "avere il proprio mondo è molto importante, anzi, fondamentale". Uhmmmmm.... vuoi vedere che questo giro l'ho proprio azzeccata?

Ciao e a presto ;)

domenica 24 marzo 2013

La Forza dell'abitudine

Sempre per la serie "da frase nasce discorso", ecco che questa volta prendo spunto da una frase di un utente del Nathan Never Forum che, nel commentare un album della serie gigante uscito in questo mese di marzo, dice così

"Sono un lettore di Nathan Never in crisi di identità. Sono orfano dello stile e delle atmosfere viettiane[*]  completamente sparite con il Nino[**]. Un acquirente per inerzia e non per passione.

Ma crescendo ho fatto una promessa a me stesso. Che non avrei mai più acquistato (come erroneamente fatto in passato) un fumetto per abitudine.
E allora perché Nathan mi fa cadere in questa contraddizione tutti i mesi?"

Note per i non lettori del fumetto Nathan Never
[*] aggettivo legato a Stefano Vietti, scrittore che negli ultimi 10 anni è stato uno degli autori principali nello sviluppo  delle storie del personaggio.
[**] Sigla per "Nuovo Inizio neveriaNO" con cui si intende l'operazione fatta per i numeri dal 250 al 253 della serie regolare di Nathan Never in cui c'è stato l'intrecciarsi di un vero e proprio riassunto dei primi 20 anni di storie della serie con la trama che, introdotta qualche mese prima nella saga denominata Guerra dei Mondi, avrebbe portato a svelare IL SEGRETO DI SIGMUND (uno dei personaggi più importanti dell'universo fantascientifico in cui si muove Nathan Never).

Visto che ultimamente sono molto ricettivo sugli stimoli che mi arrivano dall'esterno, ecco venirmi in mente ragionamenti riguardo cosa sia il concetto di abitudine e quale sia la sua forza e quindi mi preparo a condividerli su questo spazio virtuale.

L'abitudine è il rifugio sicuro che ognuno di noi si costruisce e si scava per ripararsi dalla paura dell'ignoto e del diverso, e dall'ansia di dover prendere delle decisioni; è quel meccanismo che nasce ogni prima volta che sentiamo la felicità sulla nostra pelle per qualcosa che facciamo o che ci succede, per cui vorremmo che quell'istante si ripetesse all'infinito (o almeno ad ogni occasione); è quel ritmo di vita che senti tuo e che quindi cerchi di perpetuare più che puoi, perché al suo interno ti senti a tuo agio; è anche quella infida trappola che ti convince che, anche se non sei soddisfatto di ciò che sei, di ciò che hai o di ciò che vivi, è meglio che comunque non cambi perché "Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che lascia e non sa quel che trova". Non solo gli individui, ma addirittura le comunità e i popoli stessi hanno le loro abitudini, che vengono normalmente chiamate tradizioni e questo proprio perché fa parte della natura più profonda dell'essere umano il cercare la sicurezza di ciò che già si conosce e il rifugiarsi all'interno dei propri schemi di giudizio. Perché è più facile lasciarsi guidare da questa sorta di manuale d'istruzioni che ci portiamo sempre addosso, piuttosto che cercare di osservare e di capire sia quel che ci sta intorno, sia ciò che siamo e che proviamo. La forza dell'abitudine è anche quella di generare la speranza a cui ciascuno di noi si attacca per cercare di illudersi che ciò che ci ha reso felici non cambierà mai, ma quando ci rendiamo conto che questo non capita quasi mai, ecco arrivare la delusione e l'illusione ancora più pericolosa del "ma prima o poi tornerà come prima".

Per abitudine si può arrivare veramente a fare di tutto, dal mangiare sempre gli stessi cibi, all'approcciarsi alle varie forme d'arte cercando sempre le stesse cose o le stesse caratteristiche; dal costruirci limiti, al giudicare le altre persone; dal parlare dei vari argomenti dicendo sempre le stesse cose, fino addirittura a continuare a vivere assieme anche quando la felicità di condividere la propria vita con la persona in questione è svanita da un bel pezzo.

Perché continui a comprare Nathan Never ti chiedi? Proprio perché ti ha reso felice per talmente tanto tempo, che adesso covi comunque la speranza che tu possa ancora trovare nelle storie, nelle parole e nei disegni quelle emozioni che prima provavi e che adesso ti sembra che ti abbiano abbandonato.

L'abitudine di per sé non è né buona né cattiva, l'importante è continuare a vivere i singoli momenti e le nostre azioni con la coscienza di ciò che stiamo facendo e con lo spirito di chi mette il proprio entusiasmo ogni volta che agisce e che passa attraverso un pezzo di vita. Perché è proprio così che la vita acquista un sapore unico e autentico momento per momento ed è così che ogni attimo diventa un ricordo prezioso, che varrà la pena di essere raccontato e condiviso anche con chi, di quei momenti, non ha potuto farne parte.