sabato 6 luglio 2013

Una Società Drogastica

Ovvero come ti lego il caso Schwazer, la sindrome premestruale e un ricordo dei miei 17 anni.

È il 6 agosto 2012, siamo nel pieno dello svolgimento delle Olimpiadi di Londra quando arriva la notizia che Alex Schwazer (atleta italiano vincitore della medaglia d’oro della marcia alle olimpiadi di Pechino) è stato trovato positivo ai controlli anti-doping. Da quel momento si scatena un fiume di notizie e di commenti sullo sport che deve essere “pulito”, sull’ “orrore del doping”, sullo “scandalo sportivo” di un atleta che si è “macchiato” di questa “colpa”. Negli stessi giorni, nel vagare per vari blog che seguo in rete, vado a leggere un post nel blog “A Casa di Simo” e, nei link consigliati in fondo a quel post, uno in particolare che dice di voler “spiegare agli uomini la sindrome premestruale”, intitolato "Lettera aperta all'uomo medio". Mentre lo leggo, e ancora riecheggiano in me le notizie e i commenti letti su Schwazer, i toni e i contenuti sia di quel post che di quelle notizie si associano in una maniera incredibile ed ecco che, nel commentare queste cose, mi viene fuori una frase che arriva dalla mia adolescenza: “Siamo proprio una società drogastica”.

Siamo nel 1991, un pomeriggio in cui, nella scuola superiore in cui andavo all’epoca, si stava tenendo una conferenza sul problema della diffusione della droga e delle tossicodipendenze tra i giovani e, nell’introdurre il discorso, il relatore usò un punto di vista che ancora oggi è scolpito a fuoco nella mia memoria: “Potrei farvi il discorso, sul fatto che il drogarsi è sbagliato, sul non cedere alla tentazione, o sulla debolezza di chi cede alle lusinghe della droga, ma il vero problema della diffusione delle droghe e delle tossicodipendenze è che tutti noi viviamo in una società drogastica”. Alla reazione stupita da parte della platea, professori compresi, il relatore cominciò a sviluppare il discorso puntando sul fatto che la società per prima si stava muovendo su una strada che favoriva e incentivava l’uso di droghe, perché seguiva il concetto per cui ogni individuo dovesse sempre e comunque “essere efficiente”, “essere produttivo”, “essere attivo”, “essere in forma”, “essere giovane” con una pericolosa similitudine tra i verbi “essere” e “sembrare”. Nel portare esempi per spiegare ciò che intendeva, lui ha ripreso una serie di pubblicità che reclamizzavano i prodotti più disparati come:

“Sei stanco? Bevi l’integratore X che ti da l’energia per affrontare la giornata” (Non importa che una volta che l’integratore abbia terminato il suo effetto, tu sarai ancora più stanco di prima, perché così hai consumato tue ulteriori riserve di energia, quando ti sarebbe un buon sonno per rimetterti in sesto e per essere lucido senza bisogno di ricorrere a sostanze estranee).

“Hai la febbre e non vuoi rinunciare ai tuoi impegni della settimana? Prendi la pastiglia Y che fa svanire i sintomi e puoi essere di nuovo scattante” (Non importa che il tuo corpo sia ancora ammalato e quindi, finito l’effetto della pastiglia tu stia peggio di prima, quando ti sarebbe bastato curarti e guarire per poi poter riprendere la tua vita normalmente).

“Hai fatto tardi alla sera e adesso hai le occhiaie? Usa la crema Z, e il tuo viso sarà di nuovo fresco e riposato” (Così potrai crollare addormentato durante la riunione di lavoro senza però far vedere che avevi le occhiaie).

“La notte hai problemi a prender sonno? Prendi la pastiglia H, per dormire bene” (Non importa che, magari, se non prendevi integratori e pastiglie varie per star sveglio, poi non avevi problemi per addormentarti, perché eri già stravolto di tuo).

“Le rughe e i segni del tempo attaccano il tuo viso? Usa il prodotto XY, o fatti un bell’intervento di chirurgia plastica, così sarai per sempre giovane”. (Non importa che, dai vent’anni in avanti, nel tuo corpo nascano sempre meno cellule in un giorno di quante non ne muoiano e quindi continui ad invecchiare nonostante tutti i tentativi di non farlo vedere agli altri).

“Devi affrontare un esame all’università e il tempo per prepararti non ti basta? Prendi il preparato K che ti consentirà di concentrarti più a lungo”. (E se ti limitassi a dare l’esame dell’università alla sessione successiva invece di sottoporre fisico e mente a livelli di stress superiori al comune?).
E così via elencando.

Il relatore poneva proprio l’accento su come in queste pubblicità stati naturali di un organismo sano, come la stanchezza e l’invecchiamento, fossero indicati come “problemi da combattere e da risolvere”, e per quanto riguarda lo stato di malattia, l’accento era posto non sulla guarigione dalla malattia, ma sulla soppressione dei sintomi. Infine, come ciliegina sulla torta, ecco che le “soluzioni ai problemi” altro non erano che o prodotti farmaceutici che alteravano la percezione che noi avevamo del nostro organismo (non facendoci provare le sensazioni di stanchezza, ansia, fame o qualsiasi altra cosa) o prodotti cosmetici che cercavano di nascondere ai nostri occhi, prima ancora che a quelli degli altri, i segni che il tempo lasciava sul nostro corpo. In buona sostanza in questi messaggi si sosteneva che l’insoddisfazione verso la tua vita e verso il tuo corpo poteva essere risolta dalle sostanze chimico-farmaceutiche che ti stavano proponendo (quanto è simile questo ragionamento a quello di cerca rifugio nelle droghe per sfuggire alla realtà?).

Ma quello che ha creato l’associazione di idee tra le tre situazioni, è stata la sensazione che avessero una base comune: l’impostazione data a livello sociale che tutti debbano sempre e comunque andare oltre i propri limiti, a qualunque costo e in qualunque modo. Perché l’importante è vincere, e non dare il meglio di sé; perché l’importante è curarsi della propria immagine e dell’opinione che gli altri possono averne, piuttosto che della propria persona e del proprio equilibrio; perché l’importante è sempre crearsi nuove aspettative (senza tener conto dei propri limiti), piuttosto che godere dei risultati raggiunti e vedere su come e se si può migliorare.

Entrando nel dettaglio per quanto riguarda Schwazer, vorrei far notare alcune cose:
1)     Ha partecipato a gare di Marcia da 20 e da 50 km tra il 2005 e il 2011
2)     Ha vinto una medaglia d’oro alle olimpiadi di pechino nel 2008
3)     Ha vinto una medaglia d’argento in coppa del mondo, migliorando il tempo delle olimpiadi
4)     Ha vinto una medaglia d’argento ai campionati europei
5)     Ha vinto due medaglie di bronzo ai campionati mondiali.
Nonostante questo palmares, nei mesi precedenti alle olimpiadi di Londra, ecco spuntare il concetto che, se Schwazer non avesse portato almeno un medaglia (con predilezione per l’oro, ovviamente) si sarebbe parlato di “fallimento” dell’atleta, che era visto come una medaglia sicura per l’Italia ai giochi olimpici e alcuni paventavano già che quella sarebbe stata la gara per capire se lui come atleta potesse dare ancora qualcosa, oppure se fosse già nella fase discendente della carriera. Da una parte, quindi, si creano pressioni enormi e dall’altra, se la persona cede, ecco che la butta letteralmente a mare senza alcuna pietà o riconoscimento di ciò che comunque ha fatto fin lì che, comunque, è stato qualcosa che pochissime persone al mondo sono state in grado di fare.

Per quanto riguarda la sindrome premestruale, invece, mentre leggevo il post “Lettera all’uomo medio” sul blog “A Casa di Simo”, percepivo sia l’ironia di cui era intessuto, sia l’aggressività che questo descriveva ma, se capivo e condividevo la rabbia per il dolore fisico e gli umori cangianti dovuti alla tempesta ormonale, per tutte le altre situazioni descritte il commento che mi usciva spontaneo era: “Ma perché tutta questa rabbia?”  

Sembra che vi vediate sempre più brutte di quello che siete e vi sentiate quasi obbligate a ricorrere al trucco per nascondere quelli che considerate difetti e che, quindi, non bisogna assolutamente mostrare; sembra che il farvi notare un cambiamento del vostro aspetto fisico equivalga a dirvi che siete dei cadaveri putrefatti, buone solo più per essere gettate nella fossa comune da gente che indossa la maschera antigas per reggere alla repulsione che voi provocate; sembra che il fatto di superare quella misura sacra nota ai più come “pesoformaottimale” di una quantità con ordine di grandezza superiore all’ettogrammo sia una colpa passibile di pena di morte da eseguirsi tramite crocefissione e squartamento in stile sacrificio religioso dei tempi antichi.

Date veramente l’impressione di vivere il rapporto col vostro corpo quasi come una tragedia greca in cui voi siete le eroine destinate ad essere sconfitte da quel nemico gretto e meschino che è il tempo. Ma rispondere a tutti quei messaggi e a quegli stimoli, più o meno espliciti, che ci dicono che bisogna essere sempre “belliattivigiovaniefficientiinformasmagliantesensualmenteesessualmenteesplosiviinognimomentodellagiornataefinoalnostroultimogiornodivita” con un bellissimo ECCHISSSSENEFREGA in formato intergalattico, no? Imparare a condividere col sorriso sulle labbra anche i difetti e le debolezze pare una bestemmia? Sapersi guardare in faccia, quando si sente il desiderio dell’altra persona, e dirsi “anch’io ho voglia di te, ma non ce la faccio”… e poi riderci assieme è così riprovevole? Usare il trucco per giocare e travestirsi, o per esaltare una qualità, piuttosto che per coprire un difetto, no?

Il fatto è che fino a vent’anni il corpo cresce e si sviluppa, dopo invecchia. Fintanto che te ne accorgi, vuol dire che sei viva; quando non te ne accorgi più, vuol dire che sei morta (e il processo di invecchiamento, allora, si chiama decomposizione).

Non siamo sempre in forma? Non siamo sempre scattanti? Non siamo sempre con un fisico scultoreo? Non siamo sempre giovani? E dov’è il problema? È la nostra natura! Nasciamo, cresciamo, invecchiamo e moriamo. Per cui vi chiedo: cosa trovate che sia meglio? vivere felicemente i giorni della propria vita, godendo di quanto di bello ci donano, oppure vivere come se fossimo sempre in guerra per aggrapparci disperatamente a quello che crediamo che il tempo ci voglia togliere?

Di uomini, di androidi e di pecore....

A volta capita di imbattersi in idee che sembrano vivere di luce propria. Idee che, pur passando nelle mani di più artisti in diverse arti non perdono mai nemmeno un'oncia della loro potenza e della loro bellezza iniziale.

Una di queste idee, in particolare, ha attraversato la mia strada rivestendosi di ben tre arti diverse:

La prima volta è stato in forma di film, che è fin da subito diventato il mio preferito in assoluto (e ancora lo rimane a distanza di più di vent'anni).
La seconda volta è stato in forma di libro. Sapevo che Blade Runner era stato tratto da questo libro di Philip K. Dick e, trovandolo in un'edicola della stazione di Torino, poco prima di partire per un viaggio in treno che mi avrebbe portato fino in Calabria, l'ho comprato e, nelle quasi 17 ore che è durato quel viaggio, l'ho letto tutto in un colpo solo. Ancora oggi fa parte dei miei libri preferiti e, come ciliegina sulla torta, il tipo di ambientazione e di futuro immaginati sia nel libro che nel film sono stati di ispirazione ad Antonio Serra, Michele Medda e Bepi Vigna per creare il mondo di Nathan Never (per me il miglior fumetto di sempre)




La terza volta in forma di fumetto, in particolare tramite il mezzo del romanzo grafico (o graphic novel che dir si voglia)


dove il disegnatore Tony Parker ha dato vita alla sua visione del libro tramite le immagini e dove il testo di Dick è stato preso integralmente e scomposto in didascalie e dialoghi per adattarsi alla forma del racconto a fumetti.

E in tutte queste tre arti la visione del mondo di Philip K. Dick mi ha sempre colpito in maniera molto profonda, sia nelle emozioni che mi ha scatenato, sia nelle riflessioni che mi ha ispirato. Una visione, ma di fatto due storie, perché libro e fumetto raccontano la stessa storia, mentre il film racconta una storia rielaborata, in cui molti elementi sono diversi, ma dove comunque l'atmosfera e il mondo futuro immaginato da Dick rimangono perfettamente integri.

Tutte e due le storie narrate, infatti, hanno come perno principale la relazione e la commistione tra naturale e artificiale che, in quel futuro che qui ci viene raccontato, sono talmente simili da essere quasi del tutto indistinguibili, ma nel caso del libro e del fumetto l'altro cardine è il discorso sul controllo e sull'omologazione, mentre nel film il secondo punto cruciale è il rapporto con chi è diverso.

Nel film gli androidi si recano sulla terra per cercare risposte sulla loro origine e sul loro futuro, e il film da molto spazio sia a questa ricerca, che allo scontro tra Deckard e ciascuno di loro, scontro che termina con il famoso monologo "Io ne ho... viste cose, che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione! E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei... momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo... di morire" (monologo che nel libro non esiste e che è stato improvvisato sul set da Rutger Hauer), in cui l'androide viene fatto vedere semplicemente come un'altra forma di vita che ha agito per cercare di sconfiggere la morte, ma che alla fine ha dovuto accettarla.

Nel libro e nel fumetto, invece, la caccia che Deckard fa del gruppo di androidi è solo un tassello di quello che è un vero scontro (anche se non sempre armato) di civiltà differenti, con quella androide che cerca di conquistarsi un proprio spazio dove potersi difendere dalla violenza degli umani, e con gli umani che cercano di uccidere (o, per usare il termine Dickiano, "ritirare") tutti gli androidi per sconfiggere il timore che hanno di essere sopraffatti da quelle creature artificiali. L'ambiente che viene descritto è quello di un pianeta terra con l'aria intrisa di polvere radioattiva da cui gli umani scappano emigrando nelle colonne marziane. Le città sono semi-deserte, molte specie di animali sono di fatto estinte e la maggioranza degli umani, seguace della religione del mercerianesimo, compra e accudisce animali artificiali, per coltivare la capacità di empatia (che viene definita come l'unica caratteristica che separi l'umano dall'androide).

Alcune situazioni descritte nel libro, nel fumetto e non nel film che mi hanno colpito molto sono state: in primo luogo il fatto che gli umani usassero una sorta di apparecchio che poteva infondere ogni tipo di emozione e che programmassero quali emozioni sentire all'interno della giornata; poi ciò che si intendeva con la parola "speciale", ovvero un essere umano a cui la polvere radioattiva avesse causato modifiche nel codice genetico e a cui, quindi, veniva negata l'opportunità di emigrare nelle colonie marziane perché, in quei luoghi, la società umana voleva solo persone "normali"; infine il fatto che il possesso di animali veri fosse ritenuto un vero e proprio status symbol, che gli umani che possedevano sono animali artificiali cercavano di fare di tutto per nasconderlo perché se no "chissà cosa potrebbero pensare i nostri vicini" e che esisteva un catalogo in cui si dava un prezzo specifico ad ogni specie e razza di animali e su quel prezzo stabilivi, di fatto, la classe sociale a cui apparteneva chi possedeva quell'animale.

Questa storia mi ha dato veramente tanto, sia a livello di emozioni sia di domande, dicevo prima. Domande come:

"Quante volte agiamo solo per soddisfare le aspettative di altri su di noi?"
"Quante volte neghiamo la nostra individualità, solo perché abbiamo paura di non essere accettati dal contesto sociale?"
"Quante volte mentiamo a noi stessi e agli altri, solo per paura dei giudizi che gli altri possono dare?"
"Quanto ci vorrà perché noi si possa imparare a guardare chi è diverso da noi, non come una minaccia, ma come qualcuno attraverso cui si ha una possibilità di crescere assieme?"

Ogni giorno osservo la realtà che mi circonda e, sempre più spesso, mi viene da chiedermi quanto lontano avesse visto Philip K. Dick, ormai quarantacinque anni fa.